“Voci dalla quarantena. La vita degli italiani durante il Coronavirus” è la ricerca alla quale abbiamo dato vita, con l’intento di scattare una fotografia del nostro Paese e dei nostri connazionali in questo momento così particolare. La prima analisi, dedicata alla percezione del Coronavirus e all’idea di futuro che ci stiamo facendo, si trova qui.

 

Sulla corda del funambolo

In un contesto sospeso, fatto di distanze, separazioni e assenza di riferimenti consueti, gli italiani tentennano. Sullo sfondo di un presente che non dà cenni di futuro e in cui a mancare, più di tutto, è la dimensione prospettica del domani, l’umore generale del Paese appare affaticato e in bilico, tra il tentativo di reagire e il rischio di cadere. Alla richiesta di attribuire un voto al proprio stato d’animo su una scala compresa tra 1 e 10, gli intervistati restituiscono infatti una valutazione complessiva che tocca appena la sufficienza (voto medio complessivo: 6,0). In particolare, si rileva come oltre un terzo del campione totale (34,4%) attribuisca al proprio stato d’animo un voto insufficiente, compreso tra l’1 e il 5. Sfiora, al contrario, il solo 20% la quota di quanti, attribuendo una valutazione compresa tra l’8 ed il 10, rimandano ad uno stato di sostanziale benessere e capacità di resistere alle condizioni imposte dall’emergenza Covid.

Nel complesso, dunque, si respira fragilità. Lo stato d’animo italiano si tinge di un evidente senso di precarietà ed è difficile escludere che il prolungarsi dell’esposizione alla quarantena non peggiori le cose.

“Io sto bene, io sto male, io non so cosa fare” (Cit.)

 

Domanda: nel complesso, che voto darebbe al suo stato d’animo in questo periodo? N. rispondenti = 1.195

 


L’umore e le condizioni di lavoro

 

Se quello appena riportato rappresenta il quadro generale, un’analisi più attenta e approfondita non può che mettere in luce importanti differenze, a partire dai dati sulle aree geografiche, che tendono a confermare un clima di maggiore preoccupazione (rilevato e discusso nel precedente articolo) nelle zone del Sud e delle Isole (voto medio: 5,8), in cui 4 persone su 10 attribuiscono al proprio stato d’animo una valutazione negativa.

A essere comprensibilmente più inquieti sono anche quei lavoratori che continuano nonostante la quarantena a recarsi stabilmente in ufficio: più esposti ai rischi di contagio, al silenzio e all’immagine desolata delle nostre città, questi lavoratori trasferiscono un significativo senso di precarietà, che si contrappone in modo evidente al più solido stato d’animo percepito da quanti continuano a lavorare attraverso lo smart-working. In particolare, la percentuale di quanti attribuiscono al proprio stato d’animo una valutazione negativa passa dal 43,7% di quanti si recano ancora a lavoro, ad un più contenuto 28,2% di quanti svolgono le loro attività da casa.

Giorni di ansia per quello che accade. Paura di ammalarci, perché noi lavoriamo entrambi e facciamo lavori a contatto con la gente. Ansia di trasmetterlo ai ragazzi, che sono molto ligi.

 

Domanda: nel complesso, che voto darebbe al suo stato d’animo in questo periodo? Risultati suddivisi per Area Geografica, N. rispondenti = 1.195


Quarantena e conciliazione: una nuova questione di genere?

 

Oltre a questi dati, a emergere e a risultare centrale è, senza dubbio, anche la diversa condizione che caratterizza l’universo femminile rispetto a quello maschile, con l’effetto immediato di riportare al centro del dibattito alcune tematiche di genere che la quarantena pare riaccendere.

Sembrano, infatti, le donne a pagare un prezzo più elevato per questa quarantena: oltre a una valutazione generale sullo stato d’animo che prelude a una certa fatica da parte della compagine femminile (il voto medio attribuito allo stato d’animo da parte delle donne e degli uomini è pari rispettivamente a 5,8 e 6,2), è opportuno porre l’attenzione sul 37,2% di quante attribuiscono allo stesso stato d’animo un punteggio del tutto insufficiente, pari o inferiore a 5. La stessa percentuale si riduce al 31,5% tra gli uomini.

A incidere, con ogni probabilità, un maggiore coinvolgimento nella gestione dei figli e delle dinamiche famigliari, specie in presenza di bambini molto piccoli e di una elevata necessità di accudimento: il voto medio sullo stato d’animo in presenza di bambini tra 0 e 5 anni è pari a 5,7 e la percentuale di quanti rimandano ad una condizione di benessere si riduce sensibilmente attestandosi al solo 12,5%.

A ogni modo, a prescindere dalla più o meno equa divisione dei compiti all’interno dell’organizzazione famigliare, la presenza di figli in casa pone un’ulteriore difficoltà da superare e rimanda al tema delle istituzioni educative e del grande vuoto formativo lasciato dalla Scuola. Un peso che non poteva che ricadere sulla famiglia e su una maggiore complessità di gestione: dei tempi, delle necessità, dei compiti di tutti. E rispetto alle questioni di genere c’è da chiedersi in maniera molto onesta come potrà incidere un eventuale prolungarsi della chiusura delle scuole sulle condizioni lavorative e sull’organizzazione della vita famigliare.

Inizialmente era la data, essenzialmente una questione di data. Ora è capire che mondo sarà.

 


La mappa dei sentimenti durante il lockdown

 

Ma cosa mette in bilico lo stato d’animo degli italiani? A emergere è un groviglio composito e altalenante di sentimenti in cui, tuttavia, a prevalere è un diffuso senso di preoccupazione (60,8%), alimentato da inquietudini che riportano al centro del tema del lockdown il pesante ruolo giocato dallo stato di incertezza in cui versano gli italiani: l’assenza di date, di previsioni per il domani e la caduta del Futuro generano nella popolazione sentimenti fatti di attesa (49,9%), speranza (49,3%), sospensione (28,8%), malinconia (27,2%) e tristezza (25%). A differenza di quanto ci si potesse aspettare, dunque, non è la paura (20,8%) a guidare il Paese nella lotta contro il Covid-19: per lo più chiusi nelle proprie abitazioni e al riparo da possibili contagi, gli italiani sono soprattutto in cerca di risposte.

Tuttavia, la medaglia dei sentimenti presenta anche un suo rovescio che racconta della capacità dei nostri connazionali di reagire mettendo in campo emozioni e stati d’animo positivi, primo tra tutti quello della solidarietà (35,9%), rivolta in particolare verso quanti sono in prima linea nella lotta contro l’emergenza.

Sebbene non manchino i toni grigi dell’insofferenza e dei cambi d’umore, gli italiani riservano poco spazio ai sentimenti negativi. Non è (ancora?) questo il momento della rabbia (9,6%) e della ribellione (3,2%): alla preoccupazione, oggi almeno, si tenta di reagire con fiducia (24%) e un buon grado di accettazione (29,9%).

Con delle differenze che naturalmente dipendono dalle condizioni di ciascuno, ma che evidenziano, ancora una volta e con più forza, il diverso sentire di uomini e donne e la maggiore difficoltà riscontrata nel caso della presenza di figli. Una difficoltà che si traduce in urgenza organizzativa e in necessità di pianificazione, che lasciano poco spazio a sentimenti di tristezza e malinconia, allargando, al contrario, quelli della preoccupazione, della sospensione e dell’attesa. Sentimenti comprensibili, se allacciati al ruolo di supplenza e affiancamento scolastico a cui in questo momento sono chiamati i genitori, in modo particolare, quelli dei bambini delle classi primarie e secondarie di primo grado.

E se chi si reca ancora in ufficio è comprensibilmente più preoccupato (65,3%) e malinconico (41,1%) mentre attraversa città deserte e lavora in spazi vuoti facendo i conti prima degli altri con mascherine e distanziamento sociale, chi continua a lavorare in smart-working sembra lasciare più spazio ad un sentimento di accettazione (36,5%), a cui fa da contraltare un maggiore senso di sospensione e attesa su cosa lo aspetterà.

 

L’approfondimento (dalle interviste)

Bene ma non benissimo. L’umore oscilla, cambia con il passare dei giorni, si modifica. Cambia anche in funzione del modo in cui si sta trascorrendo il lockdown. Per chi vive da solo il processo è più lineare: c’è un momento iniziale di ansia, di paura del virus, ma anche di sbandamento per la necessità di riorganizzare tutta la vita secondo ritmi diversi da quelli abituali. Per chi è in famiglia la preoccupazione principale sono i figli, e non tanto quello che stanno vivendo in questo momento, quanto il loro futuro, i segni che lascerà in essi questa esperienza, il mondo che troveranno.

Per tutti, è come una sorta di percorso, ci sono delle fasi, dei passaggi obbligati.

Il primo passaggio è l’incredulità. Qualcuno lo definisce uno schiaffo in faccia, quello che è successo, il sentirsi dire che c’era una pandemia in corso e dunque non si poteva più uscire di casa. Incredulità che è anche negazione: come potrebbe mai capitare proprio a me?

A volte mi sento strana perché mi dico: perché non mi spavento di questa cosa?

 

Poi c’è l’accettazione. Che non è indolore, perché i fattori da gestire sono molti. Per chi è solo, la cosa più complicata da controllare è il pensiero, che di colpo non ha più oggetti esterni su cui esercitarsi e rimane su di sé. In questo esercizio di prolungata autoanalisi (perché è di questo che si tratta) si scoprono parti di sé che prima non emergevano e che diventano, almeno nelle intenzioni, le fondamenta su cui si costruirà la propria identità “quando tutto sarà finito”. Chi vive in famiglia, al contrario, deve essere, in questa fase in particolare, orientato completamente agli altri, soprattutto se è una donna, una madre. Perché al di là di come ci si sente, una famiglia e una casa devono “funzionare”, per cui c’è bisogno di concretezza, di azione, di organizzazione. Questa esigenza è così marcata che durante le interviste è difficile affrontare l’argomento degli stati d’animo con le madri: perché loro parlano dei figli, di come si sentono rispetto a essi, delle loro preoccupazioni come madri, di quello che provano in questa veste. Recuperare le madri a pensarsi, prima, come persone, è un esercizio che ha del blasfemo. La fase di accettazione richiede concentrazione e dedizione, uscire dal ruolo è pericoloso. Si potrebbe perdere il controllo.

 

Sicuramente da questa quarantena uscirà una persona diversa, sarà come se fosse uscito un leone dalla gabbia.

 

La fase successiva è quella dell’organizzazione, dell’adattamento. Qui, dopo un momento di smarrimento e di riflessione, si passa all’azione. Chi vive da solo decide che farsi la doccia e vestirsi è una buona idea, come pure fare esercizio fisico. Le famiglie si organizzano, stabiliscono turni per la gestione della casa, inaugurano abitudini finalizzate a tenere tutti insieme: giochi, film, ginnastica. È una fase di grande attività, che serve a trasformare quella che è una nuova normalità in un’occasione di crescita come comunità. Ma chi era ondivago rimane ondivago, chi era preoccupato rimane preoccupato.

 

Nessuno si è buttato dal balcone, nessuno è scappato di casa, nessuno è andato in farmacia a chiedere il Lexotan.

 

L’ultima tappa di questo viaggio è la consapevolezza. Della mancanza: di libertà di movimento, di fisicità nel contatto con gli altri, a un livello più superficiale; a livello profondo, quello che manca è la prospettiva, una data di fine di tutto questo. E come si manifesta questa consapevolezza? Con una descrizione laconica del proprio stato d’animo: bene, ma non benissimo.


 

In particolare, quali di questi sentimenti descrivono meglio il suo stato d’animo? N. rispondenti = 1.195

 


 

I sentimenti di chi ha figli da 6 a 10 anni

I sentimenti di chi ha figli da 11 a 13 anni


Tra il Covid e gli Dei

 

In questo clima di sopravvivenza, la fede è una forza in più a cui poter attingere. Potersi affidare al conforto di un Dio e di una visione credente rappresenta un’evidente risorsa, che regala una diversa promessa del domani. A differenza di quanti si professano non credenti, infatti, gli italiani che si affidano al proprio credo religioso manifestano un elevatissimo senso di speranza (59,4% vs 36,2% dei non credenti), riducendo sensibilmente il senso dell’attesa (43,8%) e della sospensione (24,2%) e mostrando un maggior senso di fiducia (27,3% vs 21,9% dei non credenti). Un privilegio, questo, su cui al contrario la visione laica paga il suo pegno, restando sospesa in un tempo che non trova consolazione nemmeno nella vita eterna.

Adesso non è il momento del fare. È il momento del mettersi comunque in campo cercando di trovare dei contenuti che ci interessano, ma è il tempo anche dell’ozio, il tempo della pigrizia, anche il tempo della tristezza.